21/10/2015 – Nel campo profughi di Malakal trovano riparo 45.000 persone. La maggior parte sono donne e ragazze, protette da un recinto di filo spinato, un muro di fango, e 1500 caschi blu delle Nazioni Unite. Sono proprio queste donne a tenere insieme i pezzi di ciò che resta del violento conflitto esploso nel dicembre 2013. Anche se la maggior parte dei servizi sono strutturati per gli uomini, sono loro a proteggere la famiglia all’interno del campo profughi, rischiando ogni giorno la vita per i propri cari.
Da quando in Sud Sudan si è riaccesa la guerra civile, molte famiglie sono intrappolate qui. Essendo Malakal una delle città più colpite, i suoi abitanti correvano alla vicina base delle Nazioni Unite, che ha così aperto le sue porte. I 21 mesi di combattimenti quasi ininterrotti hanno lasciato decine di migliaia di vittime sul campo, due milioni di sfollati, e quattro milioni a rischio fame. In questo periodo il campo profughi di Malakal è diventato una massa soffocante di tende e baracche stipate di persone, con tutti i problemi di igiene, infezioni e malattie che ne conseguono. Le piogge abbondanti non fanno che peggiorare la situazione: il campo si trasforma in una palude, vi sono perdite dalle latrine, con inondazioni delle acque reflue nelle abitazioni e rapida diffusione della malaria.
Per le persone è troppo pericoloso lasciare il campo profughi. Malakal, un tempo fiorente polo petrolifero sulle rive del Nilo, è oggi svuotata e distrutta, occupata dai soldati del governo. Le donne che si avventurano fuori lo fanno principalmente alla ricerca di cibo e legna da ardere per la cottura dei cibi. Ma una volta superati i cancelli, rischiano ogni volta molestie, rapimento, stupri e anche la morte. Eppure non desistono nell’unico obiettivo di proteggere la propria famiglia.
Sono loro le eroine in un Paese ancora lontano dalla pace, nonostante il recente annuncio del ritiro delle truppe ugandesi dal Sud Sudan in rispetto agli accordi stipulati con il trattato di pace di agosto. Il dispiegamento dell’esercito ugandese in terra sud sudanese era stato inizialmente elogiato per arginare il potenziale genocidio in atto, poiché avrebbe consentito l’evacuazione dei cittadini stranieri e il mantenimento di un equilibrio di potere tra le fazioni in lotta. Tuttavia, ben presto tale forza è stata incanalata dal governo diventando di supporto agli interessi del presidente Kiir.
(fonti: AllAfrica.com, Aljazeera)
21/10/2015 – Nel campo profughi di Malakal trovano riparo 45.000 persone. La maggior parte sono donne e ragazze, protette da un recinto di filo spinato, un muro di fango, e 1500 caschi blu delle Nazioni Unite. Sono proprio queste donne a tenere insieme i pezzi di ciò che resta del violento conflitto esploso nel dicembre 2013. Anche se la maggior parte dei servizi sono strutturati per gli uomini, sono loro a proteggere la famiglia all’interno del campo profughi, rischiando ogni giorno la vita per i propri cari.
Da quando in Sud Sudan si è riaccesa la guerra civile, molte famiglie sono intrappolate qui. Essendo Malakal una delle città più colpite, i suoi abitanti correvano alla vicina base delle Nazioni Unite, che ha così aperto le sue porte. I 21 mesi di combattimenti quasi ininterrotti hanno lasciato decine di migliaia di vittime sul campo, due milioni di sfollati, e quattro milioni a rischio fame. In questo periodo il campo profughi di Malakal è diventato una massa soffocante di tende e baracche stipate di persone, con tutti i problemi di igiene, infezioni e malattie che ne conseguono. Le piogge abbondanti non fanno che peggiorare la situazione: il campo si trasforma in una palude, vi sono perdite dalle latrine, con inondazioni delle acque reflue nelle abitazioni e rapida diffusione della malaria.
Per le persone è troppo pericoloso lasciare il campo profughi. Malakal, un tempo fiorente polo petrolifero sulle rive del Nilo, è oggi svuotata e distrutta, occupata dai soldati del governo. Le donne che si avventurano fuori lo fanno principalmente alla ricerca di cibo e legna da ardere per la cottura dei cibi. Ma una volta superati i cancelli, rischiano ogni volta molestie, rapimento, stupri e anche la morte. Eppure non desistono nell’unico obiettivo di proteggere la propria famiglia.
Sono loro le eroine in un Paese ancora lontano dalla pace, nonostante il recente annuncio del ritiro delle truppe ugandesi dal Sud Sudan in rispetto agli accordi stipulati con il trattato di pace di agosto. Il dispiegamento dell’esercito ugandese in terra sud sudanese era stato inizialmente elogiato per arginare il potenziale genocidio in atto, poiché avrebbe consentito l’evacuazione dei cittadini stranieri e il mantenimento di un equilibrio di potere tra le fazioni in lotta. Tuttavia, ben presto tale forza è stata incanalata dal governo diventando di supporto agli interessi del presidente Kiir.
(fonti: AllAfrica.com, Aljazeera)