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5 Ottobre 2011

In memoria di padre cesare

Mi trovo a scrivere sotto una grande tettoia circolare, dal diametro di circa dieci metri, al centro della quale si erge imponente un grosso albero produttore di frutti simili ai fichi, che lancia i suoi rami a trafiggerne il tetto per rinfrescare chi si trova sotto la sua ombra. È una tipica costruzione in stile africano, con le travi principali di mogano e quelle minori di banano, definita dal vescovo una “RuKuba”. L’aria si infila tra i pilastri che reggono il tetto, creando una piacevole brezza, e rendendo meno pesante il clima inesorabile del Sud Sudan. Tre ore fa pioveva a dirotto, mentre ora il sole cuoce tutto ciò che incrocia con i suoi raggi.

In un tavolo di fronte a me, sono seduti quattro ragazzi occupati a fare dei conti col computer, discutendo tra loro in inglese, mentre una ragazza li osserva divertita, dal tavolino al loro fianco, con un libro aperto che aspetta di essere letto. Ogni tanto, la ragazza vestita di una maglia gialla che contrasta col colore ebano della sua pelle, si alza e va a sputare nella terra. Altri due ragazzi, in piedi, chiacchierano in lingua Dinka. Sono alcuni degli studenti che partecipano ad uno dei tanti workshop che si tengono al Pan-Door.

Padre Cesare volle questa costruzione con l’intento di creare un punto di aggregazione, al riparo del sole e della pioggia, creando un ambiente eccezionalmente confortevole: passare il tempo qui sotto a chiacchierare fino a notte fonda è davvero piacevole. Pochi mesi fa, a marzo, prima che il Bishop ci lasciasse in modo così repentino e inaspettato, passammo notti indimenticabili, sotto il cielo stellato del Sud Sudan, seduti appena fuori dalla protezione della rukuba, rubando un po’ di refrigerio alla notte, mentre le nostre menti si perdevano in chiacchiere infinite.

Percorrendo la strada che ti porta da Rumbek a Wau, appena superata la piccola e coloratissima cattedrale, sulla destra incroci un cartello rettangolare, su cui c’è scritto in modo circolare “Pan-Door, House of the Peace”. È questo il luogo che accoglie gli ospiti che visitano la DOR, ed è uno dei rari posti dove puoi trovare da dormire e da mangiare a Rumbek. Il Pan-Door è di proprietà della DOR e Padre Cesare lo ha pensato come luogo di accoglienza cristiana.

Entrando, dalla strada principale, lasci la macchina nel cortile per attraversare a piedi il piccolo cancello che ti da l’accesso alle strutture. È un quadrato. Il vialetto di ingresso, sfila tra due piccole costruzioni che fungono da magazzino dal lato destro, e la sala convegni sul lato sinistro. La cucina è in continuità con la sala dei convegni, che si trasforma in sala da breakfast, lunch e dinner ad ore prefissate di ogni giorno. Le camere sono situate su tre dei lati, mentre sul rimanente lato si trovano i servizi igienici, le docce, la lavanderia e i fili per stendere la biancheria. Il comfort nelle camere non è dei migliori, almeno secondo gli standard a cui siamo abituati noi occidentali, ma per un popolo che è appena uscito da una guerra ultra trentennale, il Pan-Door è già un primo passo verso un concetto concreto di accoglienza alberghiera. Di fronte al vialetto che porta alle camere, trovano deposito un centinaio di mattoni costruiti a mano con sabbia e cemento, ad indicare che alla fine della stagione umida, ci saranno nuovi lavori straordinari. Ogni volta che vengo al Pan-Door qualcosa di nuovo è stato costruito, ed il comfort è leggermente migliorato.

La rukuba sotto cui sto scrivendo, è al centro del compound, e domina l’intero Pan-Door.
Siamo arrivati a Rumbek tre ore fa, con un volo da Nairobi, facendo uno scalo tecnico a Lokichokio. È il solito volo della compagnia ALS, che ti accompagna a Rumbek a bordo del consueto turboelica da 19 posti Beechcraft 1900 C, sgangherato, tuttaltro che confortevole, con poltroncine dallo schienale rotto, che ti accompagna ad ogni movimento della schiena. Ma la cosa divertente è che il pilota, un indiano con tanto di turbante Sikh blu schiacciato sotto le grosse cuffie, ti ricorda di tenere su lo schienale della poltrona durante il decollo e l’atterraggio. Chissà se si sarà mai seduto tra i passeggeri? L’assistenza è cambiata in questi anni, perché le prime volte che usavamo questa compagnia aerea, prima di salire sul piccolo aereo, ci veniva dato come conforto, un sacchetto con dentro una bottiglia da mezzo litro di acqua ed una caramella alla menta. Le cose sono migliorate di anno in anno, fino ad arrivare ad oggi, che vieni accolto da un sacchetto di carta contenente, oltre ad acqua e caramella, una piccola bustina di arachidi salate, un succo di frutta al mango, e tre biscotti dolci: più di quanto ti danno alcune grandi compagnie aeree internazionali.

Hanno volato con noi fino a Loki, anche due ragazze americane (io le definisco ragazze, anche se devono avere la mia età, e ragazzi non lo siamo più da tempo), di San Francisco, membre di una ONG dal nome PhotoPhilanthropy, costituita da appassionati di fotografia, che girano il mondo prestando gli obiettivi alle situazioni più disperate con una missione precisa “Photographydriven by social change – Social changedriven by photography”. Abbiamo avuto poco tempo per chiacchierare e conoscerci meglio, ma un contrasto in loro mi ha stupito: Nancy, la fondatrice della ONG, leggeva un libro sui bambini soldato, alla vecchia maniera, piegando indietro le pagine lette e prendendo appunti su di un piccolo quaderno; mentre Giuly leggeva un e-book, sul suo Ipad, dal titolo “Whatis the what”, best seller sui bambini nel Sud Sudan. Le due volontarie erano dirette al campo profughi di Kakuma, nel nord del Kenia, nella terra dei Turkana a circa cento chilometri a sud di Loki, dove trovano rifugio migliaia di donne e bambini somali.

Piove a dirotto e sull’aeroporto di Rumbek si è scatenato un inferno di vento e pioggia, in pieno stile africano. Il Beech 1900 C volteggia nel cielo cupo di Rumbek, faticando a trovare la corretta posizione per l’atterraggio, mentre i motori, che rombano come demoni inferociti, forzano i vortici del vento facendo vibrare all’inverosimile la carlinga. Nel girare sopra le case, sotto le ali dell’aereo la città appare come un agglomerato di capanne avvolte da acqua e fango tanto da sembrare un centro lagunare. Atterriamo ballando e saltando sulla pista fangosa. Il tragitto verso la piccola costruzione che funge da dogana si fa camminando sotto l’acqua, con i piedi impegnati a cercare le pozzanghere fangose meno profonde. Mentre camminiamo nel fango guardiamo le valigie che vanno verso la nostra destinazione adagiate su di un pic-up aperto: anche loro come noi arriveranno bagnate a destinazione.

Guardiamo verso il grosso albero di tamarindo che tiene in ombra la dogana, perché quello è il luogo dove sempre Padre Cesare ci accoglieva, con il sorriso, scusandosi a nome di un territorio così poco ospitale verso i suoi visitatori. Quell’abbraccio ti faceva sentire a casa, ti trasmetteva sicurezza, e Padre Cesare sapeva arricchire e impreziosire il suo benvenuto con semplici generi di conforto, the, caffè e alcuni biscotti, per rigenerarti dal viaggio e dal caldo che ti asciuga le viscere appena dai il primo respiro su questo territorio. Commentiamo come quel luogo sia vuoto senza l’esile figura del Bishop sotto l’albero. E quel senso di vuoto ci accompagnerà per tutto il viaggio.
La notte è calda e umida all’inverosimile. La pioggia caduta nelle ore del giorno, ritorna al cielo, evaporando col caldo, rendendo l’ambiente pesantissimo. Neanche la notte riesce a vincere il caldo, mentre le zanzare apprezzano il gusto del nostro corpo.

II rintocchi della piccola campana della cattedrale annunciano, alle sette e mezza di mattina, l’inizio della messa. È una celebrazione a memoria del vescovo Mazzolari, sepolto a lato dell’altare due mesi fa. In chiesa ci sono una cinquantina di persone, soprattutto religiosi e volontari della missione di Rumbek. La chiesa è a lato della strada che collega Rumbek a Wau. Dal lato opposto sorge la caserma della polizia, per cui durante la messa puoi sentire in lontananza il passo di marcia delle centinaia di giovani che si esercitano nel grande piazzale, interrotto dall’urlo corale, in risposta al comando ritmato dell’istruttore. La messa è accompagnata da canti sacri il cui tempo è scandito da una giovane suora, che, dietro di noi, percuote con delicatezza un tamburo, legando così con un suono africano, gli alti toni delle voci femminili e a quelli bassi degli uomini. Il loro modo di cantare sacre melodie, con toni così contrastanti, fa vibrare l’anima.

L’ultima volta che ascoltai la messa nella cattedrale, fu in occasione della festa delle ceneri, sempre alle sette e mezzo del mattino. Mi colpì il fatto che a quell’ora la chiesa fosse strapiena di gente. In occasione della imposizione sul capo della cenere, mi avvicinai a Padre Cesare, per sottopormi al rito, sul lato destro dell’altare, dove oggi giacciono le sue spoglie. Il Bishop mi sorrise ripentendo ancora una volta la formula in latino, che ricorda la fugacità della vita. Mai avrei pensato che sarei ritornato dopo pochi mesi a pregare sulla sua tomba.

Conobbi il Bishop nel 1999. Lo vidi in televisione intervistato da Enzo Biagi, mentre denunciava la grave condizione in cui viveva il popolo del Sud Sudan a causa della guerra e delle continue carestie. Io allora ero Sindaco di Toirano, e affascinato dalla tenacia con cui quella esile figura combatteva contro dei giganti, decisi di proporre alla mia giunta ed al consiglio comunale, di trovare un modo per aiutare quel vescovo. Decidemmo così di proporgli un gemellaggio tra il nostro comune ed una sua missione. 

L’incontro con Padre Cesare fu particolare perché, pur avendo perso da tempo la fede, mi trovai a mio agio nel proporre ad un vescovo il gemellaggio. Premisi al vescovo quale era la mia posizione rispetto alla mia credenza in Dio, ma lui liquidò la mia necessità di chiarire il mio punto di vista, con una frase che mi colpì: “ la Fede, non la si perde…la si trova, e una volta trovata fa il suo percorso nella nostra anima. C’è molta più fede in te di quanto tu possa pensare…. lasciaLo lavorare con la tua anima. La tua azione oggi è profetica, e presto tu stesso ne capirai il significato”. Aveva ragione lui, e tra i tanti meriti che gli vanno attribuiti, almeno per quello che mi riguarda, c’è anche quello di avermi aiutato a ritrovare la strada.
Negli anni successivi mi spiegò cosa intendeva per “azione profetica”, ed egli mi disse che quando io mi proposi di aiutarlo in quel modo, unendo la nostra piccola comunità a quella sudanese, lo feci nel momento in cui il suo popolo era abbandonato e quel nostro gesto era anticipatorio di una nuova era, che avrebbe portato il suo popolo verso un futuro migliore, di cui a noi non era ancora data la possibilità di vederne la sua piena dimensione.

Incominciò una collaborazione tutta particolare, a ottomila chilometri di distanza, che ci portò a fare cose immense e meravigliose, che senza la sua forza interiore mai avrei potuto affrontare.

L’anno successivo, all’inizio del secondo millennio, nacque CESAR, che con un acronimo riprendeva il nome di Cesare e la sua iniziativa nella diocesi di Rumbek. Oggi CESAR continua a lavorare portando avanti l’opera del vescovo Cesare Mazzolari.

Era un uomo veramente eccezionale. Quando ti coinvolgeva nelle sue iniziative, dalle più semplici a quelle dall’apparenza impossibili, ti faceva sentire parte di un progetto grande, che andava oltre la nostra misera dimensione. Ogni sua azione era per il suo popolo, come lui chiamava gli abitanti del Sud Sudan, e anche la semplice raccolta di fondi per comprare i quaderni delle scuole era la tua partecipazione ad emancipare quel popolo che lui tanto amava. Era così in ogni cosa che faceva, ed ora ti rendi ancor più conto quanta vitalità c’era in ogni sua azione.

Il mondo si era dimenticato della sua gente, e lui trovò il modo di portare il mondo nel Sud Sudan. Ha lasciato in eredità alla sua Diocesi la presenza di ben sedici congregazioni religiose differenti; nelle sue missioni si parlano le lingue più disparate, dall’inglese, al coreano, al francese, al tedesco, all’italiano, allo spagnolo, al francese, al polacco, allo slovacco, al portoghese, allo swahili, al croato, all’olandese, al danese, e sono certo di dimenticarne qualcuna. Non c’è una diocesi in Africa che abbia tanta parte di mondo tra i suoi collaboratori.

Negli anni della disperazione, creò una rete di relazioni internazionali, seconda solo ad un capo di stato. Ricordo ancora come fosse oggi, il giorno in cui lo accompagnai al Parlamento Europeo a raccontare del Sud Sudan.

Aveva un modo unico di chiederti aiuto, e alla fine della sua richiesta tu eri sempre disponibile, così ti ritrovavi con in tasca un biglietto per il Sud Sudan, piuttosto che per gli USA, per l’India, la Spagna o l’Inghilterra: il mondo non aveva confini se si trattava di raccogliere fondi per aiutare il suo popolo.

Mangiare alla sua mensa, anche se molto povera, era sempre un arricchirsi di qualcosa. Ricordo le volte, che si perdeva nel versarti il cibo nel piatto, per farti sentire suo ospite; o ti raccontava di come i sudanesi preparano una semplice zuppa di fagioli invitandoti ad assaggiarne la bontà; o cercava di farti assaporare il gusto del pesce del lago di Yirol; oppure ti sbucciava con dovizia un frutto di papaia, che aveva appena lui stesso raccolto dall’albero fuori la capanna, e ti accompagnava nel sentirne il gusto dolce, dicendoti che la raccolta e la grazia con cui lo prepari è essenziale nel sentirne il fragranza. Trasformava la povertà in ricchezza, con gesti, parole e sguardi. Aveva un carisma enorme: nulla nelle sue azioni e nei suoi pensieri era banale. Sapeva conquistare le persone e sapeva guidarle verso il raggiungimento di mete che apparivano impossibili.

Era un piccolo uomo, di umili origini, bresciano dello stesso paese del Papa Paolo VI, non aveva nulla di simile ai Dinka, l’etnia principale della sua Diocesi, eppure lui si sentiva anzitutto uno di loro. Ha sempre detto a tutti che avrebbe voluto essere sotterrato in terra Dinka. Così è stato, e questo lo ha reso ancora più grande agli occhi del suo popolo. Ha scelto di stare nella chiesa che aveva ricostruito dopo le distruzioni arabe della guerra, a testimoniare la sua speciale natura.

Il motivo principale di questa ultima visita alla DOR è la scuola di Cueibet. È una toccata e fuga di pochi giorni, per verificare lo stato di avanzamento della costruzione. Padre Cesare sapeva bene che uno dei problemi della sua gente era la formazione della classe dirigente, e conosceva bene quale fosse il livello di preparazione culturale, politica, sociale, che i nuovi comandati avevano, formati da oltre trenta anni di guerra. Era questa la sua preoccupazione principale, preparare una nuova classe dirigente basata su valori di pace e riconciliazione. Da questa sua preoccupazione nacque la visione di una scuola che preparasse gli insegnanti, un vero e proprio Teacher Trainer Center. Aveva concordato con il governatore di Cueibet, che avrebbe costruito la scuola poco distante dal centro di quel piccolo villaggio, subito dopo l’altisonante “FreedomSquare”, che si stava espandendo rapidamente, in un appezzamento di terra donato appositamente dal governo.

Quanti sogni intorno a quella terra. Un rettangolo di trecento metri per mille metri, coperto da centinaia di alberi di Lulu, dai cui frutti viene estratto il burro di caritè. Progettammo un vero e proprio campus, con al centro una chiesa africana che doveva diventare il punto di raccolta non solo ideale degli studenti del TTC. Quel progetto diventò la nostra prima occupazione, ogni nostro pensiero era rivolto a quella scuola, ed era diventato il simbolo del nostro nuovo modo di vivere il Sud Sudan, che nel frattempo si era formato, diventando uno Stato vero e proprio, riconosciuto all’ONU. La profezia che Padre Cesare vide dodici anni prima, nel nostro incontro si era realizzata e stavamo lavorando per creare i futuri cittadini del Sud Sudan.

La cattedrale di Rumbek dista 54 chilometri dal cantiere della TTC a Cueibet. Lasciata la chiesa percorriamo il chilometrico rettilineo sterrato, largo quanto basta per dare il passaggio a due macchine. La strada appare come una ferita nella savana. È rossa del colore della terra ferrosa che ne costituisce il fondo. Ai lati la natura selvaggia cerca di riappropriarsi del suo pezzo di carne, lanciando propaggini di rovi e sterpi a lambirne i bordi, consapevole com’è che gli basterebbero pochi giorni di lavoro indisturbato per chiudere la ferita. È una lotta tra la savana che vuole rigenerare quella pugnalata e l’uomo che invece ne ha una necessità vitale. Tutto in Africa è selvaggio ed esagerato nel suo modo di manifestarsi e così appare anche questa stretta strada rosso sangue, che combatte contro l’aggressione continua della natura. Mentre la stagione delle piogge rafforza il vigore di una natura che ora mostra i suoi impetuosi muscoli, l’uomo, con i pochi mezzi di cui dispone in questo luogo, cerca di respingerne l’avanzata. Tutto all’intorno della ferita rossa si colora di verde, e i fiori selvaggi coi lori colori cangianti ti ingannano, facendoti apparire gentile ciò che invece è rude e inesorabile. Solo i Dinka che vivono nel girone infernale del “cattle camp” sanno convivere con questa natura, rappresentandone essi stessi la parte umana, celebrandola con i loro riti, antichi quanto la presenza dell’uomo tra le paludi del Nilo.

Sei mesi fa con Padre Cesare posammo la prima pietra della TTC. Fu una breve cerimonia, molto povera, improvvisata. Mettemmo sotto la pietra angolare due immagini sacre, accompagnate da una breve preghiera e dalla benedizione con acqua santa. Forse chi ci avesse potuto vedere avrebbe riso di noi, ma sono fiero di dire che quella cerimonia fu per noi ricca di significati, e l’abbraccio che ci riunì commossi ne fu la testimonianza più vera e sincera.
Oggi quella pietra rettangolare, benedetta, che poggia su due piccole immagini sacre, regge lo spigolo destro della costruzione. Non ci pare vero, il sogno sta prendendo forma e la prima parte della scuola è quasi pronta, mancano solo alcune piccole rifiniture che vedranno la realizzazione nelle prossime settimane, ed a gennaio entreranno i primi quaranta tra studenti e studentesse. Quello sarà il coronamento del sogno di Padre Cesare e l’appagamento per tutte le difficoltà affrontate e superate.

Nessuno ne ha parlato ufficialmente, ma tutti lo sappiamo: quella scuola si chiamerà “Teacher Trainer Center Monsignor Cesare Mazzolari”, come il suo popolo si aspetta.

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