Un esodo senza fine, quello dei rifugiati sud sudanesi in Uganda. Eppure, dentro la tragedia, emerge la bellezza di una solidarietà vissuta
(di Anna Pozzi)
Vista dall’Uganda la tragedia del Sud Sudan appare in tutta la sua apocalittica drammaticità. Perché è nei distretti settentrionali di questo Paese che si riversano ogni giorno migliaia e migliaia di profughi in fuga dal conflitto civile che dal dicembre 2013 devasta il più giovane Paese dell’Africa. Un esodo senza fine.
Queste colline dell’Uganda sono punteggiate all’infinito di macchie bianche o grigie, che si perdono a vista d’occhio: sono i teli dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati, o i tetti di lamiera che ricoprono le casupole dei profughi sud sudanesi.
Sono più di un milione. Più di un milione di persone alla deriva che raccontano uno dei peggiori fallimenti della storia recente dell’Africa. Quello appunto del Sud Sudan.
Un gruppo di loro è appena arrivato con un autobus bianco dell’Unhcr presso l’Imvepi Reception Centre, il Centro di prima accoglienza di Imvepi, nel distretto di Arua, che conta complessivamente circa 230 mila profughi su una popolazione di quasi 800 mila abitanti. Sono in grande maggioranza donne e bambini, che in effetti rappresentano più dell’82% dei fuggitivi dal Sud Sudan.
Alcuni operatori li orientano verso un grande tendone, dove si eseguono procedure di routine. Tutti ricevono una compressa per le parassitosi intestinali: poi ai bambini viene somministrato il vaccino contro polio e morbillo; quindi, tutti vengono sottoposti allo screening per la tubercolosi.
«Lo scorso anno siamo arrivati ad accogliere, in alcuni periodi, più di 2.500 profughi al giorno – ci illustra Shaban Osman, team supervisor della ong operante qui -. Molti di loro fuggono non solo dalla guerra, ma anche dalla fame», ci fa notare Shaban, che si muove con gentilezza tra i profughi appena arrivati, a cui si rivolge nella loro lingua: «Anch’io sono stato un rifugiato – ci confida -: sono arrivato in Uganda quand’ero un bambino nell’89. Qui la mia famiglia ha potuto ricominciare una nuova vita. E io ho completato gli studi, laureandomi in tecnologia e logistica. Sono molto riconoscente all’Uganda. E sono molto felice di poter restituire un poco di quello che ho ricevuto al mio popolo che continua a soffrire e a fuggire».
Il colpo d’occhio è impressionante. I profughi non sono chiusi in campi – peraltro impraticabili per un numero così elevato di persone – ma distribuiti in settlement, insediamenti. Il più vasto (al mondo!) è quello di Bidi Bidi nel distretto di Yumbe, con 285 mila persone. Il principio di fondo è che a ciascun capofamiglia – quasi sempre una donna – venga assegnato un pezzo di terra, il minimo indispensabile per costruirsi una casetta e alcuni attrezzi agricoli.
Le agenzie distribuiscono 12 chili di mais o sorgo al mese e 6 chili di fagioli e poco altro. Poi ciascuno deve contribuire come può al proprio sostentamento. Il governo fornisce la carta di identità e garantisce libertà di movimento e di lavoro, accesso alla sanità, alla scuola e ai servizi sociali. Tutto estremamente rudimentale, ma almeno garantito. E non ci sono conflitti.
Nel cuore di questa enorme tragedia, colpisce quest’Africa povera che accoglie altri poveri. Un’Africa della solidarietà vissuta – come può – nel quotidiano.