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5 Luglio 2017

AMNESTY DENUNCIA LE ATROCITA’

Quella del Sud Sudan è la crisi dei rifugiati più grave al mondo. Qui i diritti umani sono stati pesantemente violati con crimini di guerra attuati sia da forze governative che dalle fazioni all’opposizione, con civili uccisi, pugnalati a morte coi machete e bruciati nelle loro case, donne e bambine rapite e sottoposte a stupri di gruppo, centinaia di migliaia di persone a rischio fame e costrette alla fuga verso l’Uganda. A evidenziarlo è il rapporto pubblicato ieri da parte di Amnesty International, organizzazione in prima linea per la tutela dei diritti umani nel mondo.

La regione di Equatoria, area fertile che si estende nella parte meridionale del Sud Sudan, era stata risparmiata dal conflitto esploso nel 2013 tra le fazioni di Salva Kiir e quelle di Riek Machar. Tuttavia, intorno alla metà del 2016 sia le forze governative che quelle di opposizione si sono dirette versoYei, un centro strategico di 300.000 abitanti 150 chilometri a sud-ovest della capitale Juba, lungo un’importante arteria commerciale verso l’Uganda e la Repubblica Democratica del Congo. Le forze governative, appoggiate da milizie locali composte per lo più da giovani combattenti di etnia dinka, si sono rese responsabili di una lunga serie di violazioni dei diritti umani. Sebbene su scala minore, anche i gruppi armati di opposizione hanno compiuto gravi abusi.

«L’aumento delle ostilità nella regione di Equatoria ha significato brutalità ancora più diffuse contro i civili», ha dichiarato Donatella Rovera, Alta consulente di Amnesty International per le risposte alle crisi, appena rientrata dal Sud Sudan. «Abitazioni, scuole, ambulatori e sedi delle organizzazioni umanitarie… tutto è stato razziato, vandalizzato e raso al suolo. Il cibo è usato come arma di guerra, e queste atrocità sono ancora in corso: centinaia di migliaia di persone che solo un anno fa si sentivano al riparo dal conflitto, ora sono sfollate».

 

 

Massacri e uccisioni deliberate

Numerosi testimoni oculari dei villaggi intorno a Yei hanno raccontato ad Amnesty International come le forze governative e le milizie loro alleate abbiano ucciso numerosi civili in modo deliberato e con accanimento. In uno di questi casi, la sera del 16 maggio i soldati hanno arrestato 11 uomini del villaggio di Kudupi, nei pressi del confine ugandese. Hanno costretto otto di loro a entrare in una capanna, ne hanno chiuso la porta, hanno appiccato il fuoco e sparato alla cieca. Secondo quattro dei sopravvissuti, due dei prigionieri sono arsi vivi e altri quattro sono stati uccisi dai proiettili.

Joyce, una madre di sei figli del villaggio di Payawa, ha raccontato quanto accaduto il 18 maggio, quando suo marito e altri cinque uomini sono stati uccisi dai soldati: «Era la quinta volta che l’esercito attaccava il villaggio. Le volte precedenti si erano presi delle cose, avevano portato via degli uomini per torturarli e delle ragazze per stuprarle, poi le avevano liberate. Lo hanno fatto anche a Susie, la nipote di mio marito, di 18 anni. Era il 18 dicembre scorso».

Il 21 maggio 2017 nove abitanti del villaggio di Gimuni sono stati rapiti dai soldati. La polizia locale ha ritrovato i loro corpi, segnati dai colpi di machete, intorno alla metà di giugno. Com’è normale quando i soldati uccidono dei civili, nessuno è stato chiamato a risponderne.

Gli attacchi contro i villaggi da parte delle forze governative paiono spesso motivati dal desidero di rappresaglia contro le forze armate di opposizione attive nella zona. I combattenti dell’opposizione hanno a loro volta compiuto uccisioni deliberate di civili sospettati di parteggiare per il governo o per il solo fatto di essere di etnia dinka o rifugiati provenienti dai monti Nuba, ritenuti dalla parte del governo.

 

Stupri e altra violenza sessuale e di genere

Con l’intensificazione dei combattimenti, il numero dei rapimenti e degli stupri di donne e bambine è cresciuto vertiginosamente. «Il solo modo di essere al sicuro per donne e ragazze è quello di essere morte, non c’è modo di esserlo fino a quando sei viva», ha detto Mary, 23 anni, madre di cinque figli. Nell’aprile 2017 tre soldati hanno fatto irruzione nella sua abitazione in piena notte e due di loro l’hanno stuprata. Lei si è trasferita in un’altra abitazione abbandonata ma una notte uno sconosciuto ha appiccato il fuoco, costringendo la famiglia a fuggire ancora una volta.

Le donne rischiano di essere stuprate soprattutto quando, a causa della scarsità del cibo e dei continui saccheggi, vanno a cercare qualcosa da mangiare nei campi intorno ai villaggi.

Sofia, 29 anni, ha raccontato di essere stata rapita due volte dai gruppi armati di opposizione. L’hanno tenuta prigioniera insieme ad altre donne per un mese la prima volta e per una settimana la seconda volta, stuprandola ripetutamente in entrambe le occasioni, sebbene supplicasse di essere risparmiata in quanto madre di tre figli e vedova di un uomo ucciso dalle forze governative. In seguito, Sofia è fuggita a Yei dove ha grande difficoltà a procurare da mangiare alla sua famiglia.

 

Il cibo come arma di guerra

L’accesso della popolazione civile al cibo è estremamente limitato. Sia il governo che i gruppi di opposizione hanno bloccato le forniture in determinate zone, si dedicano a saccheggiare i mercati e le abitazioni private e prendono di mira chi prova a passare lungo la linea del fronte anche con una minima quantità di cibo. Ognuna delle parti accusa i civili di passare cibo a quella avversa o di essere sfamata da questa.

A Yei, dove la maggior parte degli abitanti è fuggita nel corso dell’ultimo anno, i pochi civili rimasti sono praticamente sotto assedio. Non potendo più andare in cerca di cibo nei campi, soffrono per la grave penuria di prodotti alimentari.

Il 22 giugno le Nazioni Unite hanno ammonito che l’insicurezza alimentare ha raggiunto livelli senza precedenti in Sud Sudan. «È crudelmente tragico che questa guerra abbia trasformato il granaio del Sud Sudan, che un anno fa poteva sfamare milioni di persone, in un campo di morte che ha costretto quasi un milione di persone alla fuga in cerca di salvezza», ha commentato Joanne Mariner, Alta consulente di Amnesty International per le risposte alle crisi. «Tutte le parti in conflitto devono riprendere il controllo dei loro combattenti e cessare immediatamente gli attacchi contro i civili che sono protetti dalle leggi di guerra. I responsabili delle atrocità, in qualsiasi parte militino, devono essere sottoposti alla giustizia. Nel frattempo è fondamentale che i peacekeeper delle Nazioni Unite eseguano il loro mandato che è quello di proteggere i civili dalla carneficina in corso».

 

>> Leggi anche l’articolo Violenze sessuali, è barbarie del 25 luglio 2017

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