03/09/2015 – E’ durato poco più di un tramonto il cessate il fuoco proclamato dal governo di Juba sabato scorso in seguito alla firma del trattato di pace. La settimana è iniziata con la notizia di nuovi attacchi e focolai di guerra negli stati di Unity, Jongley e Alto Nilo.
Del resto non lo aveva nascosto il presidente Salva Kiir nel suo discorso dopo la sigla del documento, affermando che «questo accordo è stato firmato sotto costrizione». Nei suoi punti essenziali, il trattato prevede: l’immediata fine dei combattimenti, con l’obbligo di liberare i bambini soldato e i prigionieri di guerra; la smilitarizzazione della capitale Juba e la sostituzione con un corpo di polizia unitario integrato per la sicurezza; l’ottenimento della carica di primo vice-presidente da parte dei ribelli; l’istituzione di un governo di unità nazionale entro 90 giorni e in carica per 30 mesi, con elezioni 60 giorni prima della scadenza del mandato; l’istituzione di una commissione per la verità, la giustizia e la riconciliazione in grado di indagare sulle violazioni dei diritti umani.
Un piano tuttavia ostacolato da diversi fattori. Primo fra tutti, la presenza di quegli stessi due rivali, Salva Kiir e Riek Machar, che già in passato si sono impegnati nel fermare il conflitto per poi non mantenere la parola data e passare all’offensiva. Per questo è difficile pensare che i due leader possano mai tornare a collaborare insieme per il bene del Paese.
Un secondo freno è costituito dalla suddivisione del potere indicata nel trattato di pace, che prevede una condivisione tra le forze governative (53%), i ribelli (33%) e le forze politiche minori (7%). Non minore è il ruolo dei vicini di casa sud sudanesi: si tratta dell’Uganda, militarmente schierata in supporto al presidente Kiir, al Kenya, che ha interessi economici in terra sud sudanese, e all’Etiopia, che desidererebbe essere a capo del processo di mediazione. Anche loro dovrebbero desiderare la pace tanto quanto i sud sudanesi per poter parlare di stabilità politica, sociale ed economica nel Paese.
Sulla pace incidono infine i profondi contrasti etnici presenti tra Dinka e Nuer, ancor più accentuati dopo lo scoppio del conflitto a dicembre 2013. Sono milioni i sud sudanesi che non hanno conosciuto altro che la guerra nella loro vita. Da qui deriva il forte spirito di vendetta radicato nella società e sempre pronto a frapporsi, insieme alle altre cause già elencate, al raggiungimento della pace.
Nonostante il quadro alquanto precario, sappiamo anche che non mancano i passi avanti nella riconciliazione e nella pace fatti dal popolo sud sudanese, soprattutto grazie agli amministratori locali e alla chiesa. Da qui è necessario ripartire, e da uno sforzo comune a tutte le forze politiche, affinché si raggiunga una pace che possa dirsi stabile e duratura.
(fonti: BBC, IRIN)