Le 43 congregazioni religiose presenti in Sud Sudan, hanno dato vita, tutti insieme, pochi giorni fa, alla Religious Superior’s Association of South Sudan (Rsass), un centro di spiritualità, di cura pastorale, e, soprattutto, di riconciliazione, quanto mai necessaria in un Paese dilaniato dal conflitto etnico. “È un progetto non più procrastinabile. La gente deve tornare a vivere insieme serenamente”, dice padre Daniele Moschetti, provinciale dei Comboniani in Sud Sudan, nella sua intervista a Famiglia Cristiana del 4 gennaio scorso che riportiamo qui sotto:
Le 43 congregazioni religiose presenti in Sud Sudan si sono messe insieme per un progetto ambizioso: un centro di spiritualità, cura pastorale, formazione e, soprattutto, di riconciliazione, quanto mai necessario in un Paese dilaniato dal conflitto etnico.
«È un progetto ambizioso, ma non è più procrastinabile. La gente deve tornare a vivere insieme serenamente», dice padre Daniele Moschetti, provinciale dei Comboniani in Sud Sudan. Ed è così che le 43 congregazioni religiose che lì operano ‒ dai comboniani ai salesiani, dai gesuiti ai francescani, dalle sorelle del Sacro Cuore alle Paoline ‒ hanno dato vita alla Religious Superior’s Association of South Sudan (Rsass) per realizzare un obiettivo comune: un centro di spiritualità, cura pastorale, formazione e, soprattutto, di riconciliazione (trauma healing), quanto mai necessaria in un Paese dilaniato dal conflitto etnico tra la maggioranza dinka e la minoranza nuer. Sorto ufficialmente il 9 luglio 2011, a seguito di un referendum, paga già le conseguenze delle fragilità di uno Stato giovane.
«Questo Paese è stato in guerra per 40 anni», ricorda padre Daniele, «e ancora non è finita, perché non sappiamo se durerà l’impegno a cessare le ostilità tra il presidente Salva Kiir (dinka) e il suo ex vice Riek Machar (nuer). Un milione e 300 mila persone hanno perso tutto, e sono sfollate, 600 mila sono i rifugiati oltre confine. Di tutto questo ci rendiamo perfettamente conto, ma è venuto il momento di pensare anche al dopo. Il cittadino è stanco di guerra, desidera la pace. Qui, tutti sono sotto pressione; i vescovi stessi sono traumatizzati; ed è proprio da loro che è arrivato l’input. Anche i catechisti, che hanno aiutato a mantenere la fede nel Paese, hanno espresso la necessità di aggiornamento personale in materia di teologia, fede e preghiera. La priorità, dunque, è la formazione umana e pastorale, non solo della popolazione, ma anche di quanti lavorano nel contesto ecclesiale: sacerdoti, religiosi e laici».
Il progetto del centro di formazione umana e spirituale, voluto dalle 43 congregazioni religiose e missionarie presenti in Sud Sudan. In copertina: padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei comboniani.
“La costruzione delle coscienze è fondamentale, perché non è mai fine a sé stessa, nutre tutta la comunità”
«Per ovvi motivi, in tempo di guerra, religiosi e organizzazioni umanitarie si sono dedicati solo ai bisogni materiali della popolazione, mentre quelli spirituali sono rimasti in stand-by», continua padre Moschetti. «Ma la costruzione personale, delle coscienze, è fondamentale, anche perché non è mai fine a sé stessa, nutre tutta la comunità. Ed è la sola che può assicurare uno sviluppo sostenibile e duraturo. Questa è la nostra convinzione. Qui, la violenza è insita nell’individuo. Finora non si è mai fatto nulla per mettere insieme le persone, farle riflettere, aiutarle a far emergere la loro rabbia, affinché possano elaborarla. Solo questo può portare al cambiamento. Soprattutto, bisogna prestare attenzione ai giovani, facilmente manipolabili da venditori di false e facili mete. Sappiamo che non sarà facile, ma prima si inizia e meglio sarà. Noi speriamo di farcela in un paio d’anni».
La Rsass ha ottenuto gratuitamente dalla congregazione religiosa dei fratelli di San Martino de Porres, un terreno di 180 metri per 140, vicino al fiume Kit e non molto lontano dal Nilo, 15 chilometri dalla capitale del Sud Sudan, Juba.
È un inizio, e di recente padre Daniele è andato negli Stati Uniti alla ricerca di finanziamenti, che serviranno a costruire un complesso, dotato di locali per seminari, congressi, corsi, ma anche di una quarantina di camere da letto, oltre a cucina e sala da pranzo, con un costo stimato sui due milioni di dollari. «È necessario, perché a Juba non esistono strutture di grande capienza; i locali delle varie Chiese non contengono più di 20-30 persone. E, soprattutto, non dispongono di stanze per l’alloggio. Così, la gente è costretta a prenotare negli hotel, che costano dai 110 ai 150 dollari al giorno. Juba è la seconda città africana più cara, dopo Lagos, la città nigeriana».
La gestione del centro sarà affidata ai gesuiti ‒ a questo proposito, padre Moschetti non nasconde che sarebbe un gran piacere avere papa Francesco per l’inaugurazione ‒ mentre, per quanto riguarda il personale, si farà riferimento alle numerose Ong cattoliche presenti nel Paese, che hanno esperienza in questi ambiti.
«Il 50% della popolazione è cristiana (cattolici e protestanti), ma è un cristianesimo di base, il cammino di maturità è ancora lontano», spiega ancora padre Moschetti. «Basta guardare ai due leader, entrambi hanno fallito nel loro operare, che sarebbe dovuto essere a favore della gente, invece così non è stato; entrambi si dicono cristiani, ma nel loro agire di cristiano non c’è proprio nulla».