Ma il Sud Sudan ha bisogno di pace per tornare a sperare in un futuro
Malgrado i numerosi appelli dei Vescovi del Sud Sudan e dei volontari e missionari, la pace sembra ancora lontana, in Sud Sudan. Ad Addis Abeba, dove da giorni si svolgono le trattative di pace tra i due contendenti, Salva Kiir, e il suo ex vice presidente Riek Machar, i timidi segnali di pace dei giorni scorsi sembrano essersi bloccati, a causa del rifiuto di Salva Kiir di liberare alcuni prigionieri, accusati di aver partecipato al tentativo di golpe. Uno stallo che preoccupa la comunità internazionale, di fronte alla tragedia in cui è caduto il paese in queste settimane a causa del conflitto, con migliaia di morti, altrettanti sfollati in fuga e una situazione sanitaria e sociale ogni giorno più drammatica.
Secondo quanto riportato da MISNA, nel frattempo i paesi dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) potrebbero contribuire al dispiegamento di altri 5500 peacekeeper nel quadro della Missione dell’Onu in Sud Sudan (Unmiss): lo avrebbe annunciato ieri il ministro degli Esteri del Kenya, Amina Mohammed.
L’Igad è un organismo Onu del quale fanno parte sette paesi dell’Africa orientale, tra cui Kenya, Uganda ed Etiopia. L’Igad si è già reso protagonista di un tentativo di mediazione tra le forze fedeli al presidente Salva Kiir e i ribelli legati al suo ex vice Riek Machar.
I peacekeeper avranno il compito di monitorare il rispetto di un accordo di cessate-il-fuoco tra le parti, e, nel caso non fossero rispettati, intervenire con l’obiettivo di porre fine ai combattimenti.
Alcuni paesi avrebbero già dato la propria disponibilità a inviare truppe. Non tutti però sono d’accordo. Sembra vi siano contrasti interni tra chi, come l’Uganda, è già impegnato militarmente in Sud Sudan e chi invece, come l’Etiopia, preferisce la via negoziale.
In Sud Sudan, come si è visto nei giorni scorsi, ci sono infatti già reparti dell’esercito ugandese, fuori però dalla missione di pace Unmiss: i militari ugandesi sono intervenuti al fianco di Salva Kiir nella riconquista di Bor, la capitale del Jongley e di altri centri sotto il controllo dei ribelli.
Dietro le quinte di queste brutta guerra, la vera lotta a livello internazionale è sul futuro assetto della regione e sugli equilibri politici regionali. In gioco c’è il petrolio. Da un lato Khartoum, con i contratti già firmati con la Cina e altre potenze asiatiche, dall’altra potenze occidentali che vorrebbero un nuovo oleodotto fino in Kenya, e altre ancora che lo vorrebbero invece verso l’Uganda, dove insieme ad altri giacimenti, potrebbero sfruttare al meglio l’enorme ricchezza dell’area dei Grandi Laghi, nel cuore dell’Africa.
Una guerra, questa in Sud Sudan, insomma, che non ha nulla del conflitto etnico tra Dinka e Nuer, come diversi media hanno tentato di riportare. Gli interessi economici e politici su quelle regioni sono immensi e le due importanti etnie sono le prime vittime di una guerra tutt’altro che locale.
Per chi vuole approfondire, c’è una bella intervista di Mabior Garang, figlio di John Garang, leader della guerra sud sudanese, morto in un incidente aereo, fatta da Fulvio Beltrami sul suo sito “Frammenti Africani” : http://italia.reteluna.it/it/sud-sudan-mabior-garang-spiega-le-cause-del-conflitto-PQp.html