Tra accuse, rivendicazioni e il ricatto del petrolio
Purtroppo la notizia, circolata fin da venerdì, si è rivelata vera. Dopo la firma degli accordi, e le strette di mano che sancivano una sia pur fragile pace con l’antico nemico, Sudan, la ripresa della produzione di greggio in Sud Sudan si è di fatto ribloccata. Il presidente sudanese Omar Al Bashir, infatti, da sabato scorso ha deciso di bloccare l’oleodotto che trasporta il greggio dal Sud Sudan fino ai porti sudanesi sul Mar Rosso, accusando il governo di Juba di aiutare i ribelli che imperversano nelle regioni di confine tra il Kordofan ed il Darfur. Un’accusa in parte giustificata dal sostegno che i ribelli spesso trovano nelle comunità sud sudanesi, ma che il governo di Juba nega con forza sostenendo, al contrario, che sia Khartoum a spingere la guerriglia verso i confini per creare problemi al giovane Stato, sua ex colonia. Non solo. Dopo l’annuncio fatto sabato, sembra che Bashir stia ripetutamente sottolineando che il petrolio sud sudanese “non transiterà mai più per l’oleodotto del Sudan”, invitando i giovani a raggiungere i campi di addestramento militare per prepararsi alla “Jihad”. L’ennesima prova di forza del dittatore sudanese, che non aiuta certa a diminuire la tensione sempre alta tra i due Paesi. Non è chiaro se i propositi di Bashir siano reali, ma anche se i toni richiamano alla solita retorica cui ci ha abituato il presidente, di fatto i conflitti interni in Sudan sono ogni giorno più cruenti e accesi, e la spinta secessionista, sulla scia di quanto accaduto in pochi anni in Sud Sudan è sempre più forte in diverse aree del paese, e questo non fa ben sperare nel difficile percorso di pace tra i due paesi. A conferma di questi timori, sembra che sabato notte il presidente sud sudanese Salva Kiir abbia convocato un Consiglio dei Ministri d’emergenza per valutare la situazione. Non ci sono però ancora notizie su quanto detto o deciso.
L’oleodotto sudanese è, al momento, l’unico ponte con il mercato internazionale del greggio per il Sud Sudan, e la sua chiusura blocca quindi la produzione stessa. Un vero schiaffo alla difficilissima ripresa economica del paese, tra i più poveri del mondo.